Maaza Mengiste – Il Re Ombra (2019)

Ho trovato la mia personale chiave di lettura del bellissimo e complesso romanzo di Maaza Mengiste, Il re ombra (Einaudi 2019), nella individuazione dei vari piani, non necessariamente tutti della stessa importanza, attraverso i quali si snoda il racconto della soldata Hirut.

C’è il piano dell’ambientazione geografica: i villaggi e le alture dei monti Simien che fanno da sfondo all’epica resistenza etiope dopo la sconfitta di Hailé Selassié nel 1936 e la spianata dell’accampamento dell’esercito italiano. E poi c’è Addis Abeba in un giorno di aprile del 1974, durante la rivoluzione dei colonnelli filo sovietici.

Ci sono i rapporti fra italiani e etiopi, fra oppressori e oppressi, con l’ingiustificato e superficiale senso di superiorità dei primi e la fiera e indomita opposizione dei secondi. Ma il romanzo è tutt’altro che manicheo e i personaggi hanno tutti, anche se magari non in maniera equivalente, zone d’ombra e aneliti di speranza. E per quelli che non sono in alcun modo redimibili resta un senso di pietosa commiserazione.

C’è il piano dello sviluppo cronologico degli eventi: l’occupazione dell’Etiopia da parte dell’Italia fascista e il ricordo di quegli avvenimenti quarant’anni dopo.

Ci sono storie vere, storie-ombra (che non sono quello che sembrano), storie narrate per immagini fotografiche, storie di morti e storie di sopravvissuti.

E su tutto plana – implacabile e penetrante, vero collante di tutto il libro – lo sguardo della giovanissima Hirut a cui la metamorfosi da umile serva a valorosa combattente non ha impedito di rimanere innocente e, al contempo, dolorosamente consapevole, umana di fronte alla barbarie della guerra, speranzosa e fiera senza essere, per questo, irragionevole e sprezzante.

Hirut è infatti semplicemente se stessa e con quella se stessa è a suo perfetto agio. Hirut ha ereditato la postura regale delle donne del suo popolo che le consente di fronteggiare non solo l’aggressione di un esercito straniero, che la vuole sottomettere in nome di una presunta (e auto attribuita) superiorità genetica, ma anche quella di tutti gli uomini che, nella vita, l’hanno considerata poco più di un oggetto o un trofeo da esibire.

Se tutti i personaggi maschili del libro (dal crudele Capitano Fucelli, al fragile soldato ebreo Ettore Navarra, allo spavaldo, ma inconsapevole, guerriero Kidane, fino allo stesso Hailé Selassié e alla sua pallida, ma realistica, controfigura) hanno un’anima corrotta o almeno contaminata e sono destinati ad essere travolti dalle macerie del loro passato e, dunque, a perdersi per sempre, a Hirut fanno da scudo, oltre la dignità imparata ed assorbita dalle donne del suo villaggio, anche lo speciale rapporto con due importantissime figure femminili: sua madre Getey e la cuoca. La prima la conforta attraverso il ricordo del suo insostituibile ruolo e la memoria di chi l’ha conosciuta, la seconda addirittura non ha neppure la dignità di un nome proprio, ma ha la carne e la vitalità di chi è presente, di chi sa, di chi può fare genealogia.

E così Hirut – piccolissima nello scenario storico, politico e militare in cui si muove – salendo sulle spalle di queste donne diventa un gigante che traccia il destino del suo Paese, la testimone e la custode di eventi significativi, arrivando addirittura a potersi mettere a tu per tu con l’Imperatore esiliato al momento del suo ritorno.

Il Re Ombra, nella meravigliosa e attentissima traduzione di Anna Nadotti, è scritto con cadenze e armoniosità che sembrano prese in prestito dalla poesia e con una scansione quasi musicale ed è, per tutte queste ragioni, complicato eppure irresistibile.

Particolarmente lirici ed emozionanti sono gli elenchi dei nomi dei morti che Hirut, alla fine, dice ad alta voce perché le ricordino sempre da dove viene e dove è diretta. Anche questa lettrice, nel suo piccolo, ha trovato in questo libro un nome familiare che l’ha fatta sobbalzare e lo ha pronunciato per riuscire a scriverne.