Un’Expat molto speciale: Isabella Sorace

Romanzi di formazione, invenzioni letterarie, senso di appartenenza, generazioni “perdute”: di questo e molto altro parliamo con Isabella Sorace, classe 1989, bergamasca di nascita ma svizzera d’adozione che, a Gennaio 2022, ha pubblicato il suo primo romanzo, Expat – Storie di una generazione perduta (edizioni MnM & Amolà).

Viene spontaneo chiederti, come prima domanda, di soddisfare una nostra curiosità. Sia la tua formazione universitaria (laurea in Commercio Estero a Bergamo e master in Finanza alla Bocconi), sia la tua attuale posizione lavorativa di Transformation Manager per una società di consulenza strategica e gestionale, suggeriscono la frequentazione di mondi non necessariamente affini all’espressione di sé attraverso la scrittura creativa. Come è nata l’idea di cimentarti in un romanzo e come hai concepito Expat?

In realtà i libri e la scrittura mi hanno sempre attratto. Forse la domanda vera è come sono finita a studiare quello che ho studiato e fare il lavoro che faccio!

Nel mio lavoro ci sono molti aspetti legati alla scrittura e allo storytelling ed è una delle cose che amo di più. L’idea di scrivere è sempre stata un mio pallino: dopo la laurea avevo anche fatto domanda di ammissione alla Scuola Holden ma quando mi hanno offerto un posto ho deciso di dare priorità ad un lavoro pagato, piuttosto che continuare gli studi (e ancora mi chiedo chissà come sarebbe la mia vita oggi se invece avessi fatto quel salto). Poi con gli anni ho provato con blog e simili, ma non mi hanno mai convinta a fondo.

La svolta è stata durante una vacanza in solitaria a Parigi nel 2018. Ero seduta in un locale sulle rive della Senna, avevo l’iPad con me e mi sono messa a scrivere. La storia è venuta fuori così, come se fosse stata da sempre lì ad aspettare di essere messa su carta. Poi, ovviamente, il tempo per scrivere con il mio lavoro è sempre poco, per arrivare al momento in cui ho scritto la parola “fine” sono passati un paio di anni e altri due per rifinire la storia, trovare un editore e pubblicarla!).

In Expat si affronta il tema della difficoltà, per la generazione degli attuali trentenni che hanno lasciato l’Italia, di mettere radici e costruire altrove un senso di appartenenza ad una comunità. Questo percorso che, in ultima analisi, è metafora di una più ampia ricerca di sé, è, secondo te, limitato a chi si trasferisce all’estero o è un tratto comune a tutta la “generazione perduta” di cui parli nel libro?

Credo che in molti della mia generazione si siano sentiti, a un certo punto, persi. Ma, come scrivo nel libro, non mi sento di farne una generalizzazione, e forse (anzi probabilmente) ogni generazione nella storia ha avuto la sua percentuale di persone che si sono perse prima di ritrovarsi.

Vorrei però aggiungere che questo non è necessariamente un elemento negativo, anzi. La spinta a cercare qualcosa di nuovo è per me fondamentale in un’idea di progresso. Il mondo, per come lo abbiamo costruito, ha bisogno sia di persone che sanno esattamente dove si trova il loro posto nel mondo, sia di persone che invece sono alla continua ricerca di “altro”. Perché è nella ricerca che si scoprono nuove idee e “altro” non è necessariamente un lavoro fuori dall’Italia, può essere qualsiasi cosa che ci spinga fuori dalla nostra comfort zone.

Ho trovato molto interessante che nel libro venga smontata l’equazione expat = cervello in fuga e vengano invece affrontati anche altri temi oltre quello del trasferimento per motivi lavorativi. Qual è il reale impatto dei continui cambiamenti di casa, degli aggiustamenti a stili di vita e abitudini sociali diversi, e della necessità di trovare un equilibrio fra i legami con la famiglia di origine e la ricerca di nuove relazioni affettive?

Credo dipenda molto dal tipo di persona che si è. Persone molto abitudinarie possono avere un vero e proprio trauma, perché “trasferirsi all’estero” non vuol dire solo cambiare indirizzo. Ci sono i cambiamenti pratici (richiesta di documenti di residenza, una lingua diversa, negozi e ristoranti che chiudono ad orari diversi, eccetera). Ma, soprattutto, c’è un costante senso di incertezza, perché da expat non si può mai capire tutto e subito sul paese dove ci si trova. Per esempio, quasi nessun italiano, che arriva in Svizzera, per la prima volta sa come funziona la dogana quando poi torna in Italia. E in pochi sanno che la patente deve essere convertita entro un anno. Sono piccole cose, che si imparano man mano. E per chi è abituato ad avere sempre tutto sotto controllo (che forse è come in molti si immaginano un tipico “cervello in fuga”) è sicuramente difficile da accettare.

Temo che questa domanda sia d’obbligo, ma non è detto che la risposta sia scontata: quanto c’è di te nelle giovani donne protagoniste delle storie di Expat? L’espediente della finzione letteraria ti ha aiutato a mettere a fuoco aspetti che altrimenti non avresti potuto descrivere con il giusto distacco?

Sebbene il libro sia ben lontano da un’autobiografia, sicuramente c’è molto di me in alcuni dei personaggi – e non necessariamente solo in quelli femminili. In un certo modo, ho sicuramente elaborato alcuni aspetti della mia personalità: nel libro c’è sicuramente una parte della me di oggi, alcuni aspetti della me del passato e una proiezione per certi sogni sul futuro. Ma questo non si riflette in nessuno dei personaggi in particolare. Per rispondere alla tua domanda, penso ci sia un qualcosa di catartico nel riversare alcune storie, emozioni, sogni dentro ad un libro – gli si dà forma, e diventano più semplici da “analizzare”. In un certo senso, scrivere Expat mi ha aiutata a definire meglio chi sono, e dove sto andando – ma, da brava expat, ovviamente ancora non ho nessuna risposta definitiva!

Nel libro, il percorso della protagonista Sara ha un epilogo molto definito, come se il suo cammino si chiudesse a cerchio. Quanto è importante per te l’individuazione di un percorso nella vita lavorativa e relazionale? E il percorso ha sempre a che fare con la capacità di mettere radici in un posto o, secondo te, può anche prescinderne?

Questa è una domanda complessa, sulla quale rifletto spesso. Per me, avere chiaro un percorso, un punto di arrivo, è fondamentale – sia sul lavoro che nelle relazioni. E questo è sicuramente un tratto che ho dato a Sara. Il problema di vivere in questo modo è che in realtà non c’è mai un vero punto di arrivo e chiuso un cerchio si è alla costante ricerca del prossimo. Sara alla fine riesce a mettere radici, è vero, ma se la sua storia fosse continuata probabilmente sarebbe presto partita alla ricerca di altro, di nuovo.

Forse chi riesce veramente a mettere radici è chi riesce a chiudere un cerchio senza la necessità di aprirne uno nuovo – che non vuol dire “accontentarsi”, ma apprezzare ciò che si ha senza focalizzarsi su ciò che manca. E, ovviamente, continuare a crescere ed evolvere, ma senza un percorso, un obiettivo preciso.

Infine, hai già in mente il prossimo romanzo? Quello della scrittura è un percorso che senti di voler continuare?

Sì, mi piacerebbe scrivere di nuovo e il sogno sarebbe quello di poter vivere di scrittura – cosa che so essere praticamente impossibile.

Per il mio prossimo romanzo, sto pensando ad una storia incentrata sulla memoria. Partendo dal presupposto che siamo tutti il frutto del nostro passato, vorrei esplorare come questo tema ha un impatto sulla nostra identità, soprattutto nei casi in cui la memoria è agli estremi: chi ricorda troppo e chi non ricorda nulla. Visti però gli impegni lavorativi e il tempo impiegato per scrivere e pubblicare il primo romanzo, non vi dico di correre in libreria a breve!

Grazie Isabella per essere stata con noi e, sperando di riaverti nostra ospite con il prossimo romanzo, pubblichiamo la copertina e la scheda libro di Expat che consigliamo alle nostre lettrici e ai nostri lettori!