Il giro del mondo in 80 pezzi – L’America di Bruce Springsteen

Tra i suoi fan più accaniti circola un detto, probabilmente molto veritiero: “Il mondo si divide in due categorie, chi ama Springsteen e chi non lo ha mai visto dal vivo”. E, in effetti, basta assistere ad un suo concerto per esserne travolti, in tutti i sensi. Energia, rock’n’roll, testi impregnati di una quotidianità mai banale, esibizioni lunghissime, a volte più di 4 ore, ma sempre variegate e mai noiose.

Accompagnato da musicisti straordinari (uno su tutti il leggendario sassofonista Clarence Clemons, suo intimo amico) nei suoi concerti si susseguono brani che, a buon diritto, sono ormai diventati a loro volta un pezzo della cultura americana e non solo. Born to run del 1975, Darkness on the edge of town del 1978, The river del 1980 e Born in the U.S.A. del 1984, tra i suoi dischi più famosi, hanno venduto oltre 120 milioni di copie in tutto il mondo.

Un misto di rock, soul, pop e folk sono gli ingredienti principali che, in perfetta sintesi con il suo cantautorato impegnato, hanno reso “The Boss” (soprannome dovuto al suo ruolo di leader nella E street band, gruppo che lo ha quasi sempre accompagnato nelle produzioni e nei concerti) un’icona mondiale.

Nato nel 1949, nel New Jersey, l’infanzia difficile, il rapporto conflittuale con il padre e le problematiche economiche legate alla vita di provincia innescano in lui una forza d’animo e una determinazione che lo porteranno a raggiungere traguardi incredibili, quello stesso sogno americano che Springsteen canta e racconta nelle sue canzoni.

Un patriota? Sì, ma con uno sguardo molto critico verso la società americana, incapace di farsi carico ed integrare gli ultimi, gli sconfitti, gli emarginati.

La libertà, massimo ideale protagonista dei suoi brani, si accompagna infatti all’attenzione verso i più deboli, verso tutti coloro che, quel sogno, non sono riusciti ad afferrare.

L’album che più rappresenta questa sua forma di denuncia sociale è sicuramente The ghost of Tom Joad, il suo undicesimo, uscito nel 1995, che gli valse un Grammy come miglior album folk contemporaneo (ndr: nella sua carriera ne ha collezionati ben 20).

Un disco musicalmente scarno, che prende spunto dal libro, premio Pulitzer del 1940, di John Steinbeck, The grapes of wrath, Furore in lingua italiana.

Ambientato negli anni Trenta durante la Grande Depressione, il romanzo narra le vicissitudini di Tom Joad, ex prigioniero, in cammino con la sua famiglia verso la California, con la speranza di un lavoro e nuove opportunità: un viaggio fatto di tristezza, rabbia e disperazione, punteggiato da paesaggi aridi e desolati.

Springsteen racconta il dramma della working class in punta di piedi, con arrangiamenti snelli usati “per sottrazione”, con il solo compito di fare da sfondo e da cornice alle storie.

Una chitarra acustica, sempre presente, una batteria suonata con le spazzole, basso elettrico minimale, leggeri pad di tastiera, violino, armonica e pedal steel (chitarra suonata in orizzontale, che permette di avere sonorità più calde grazie ai suoi glissati) sono i soli ingredienti musicali.

Seduto accanto ad un fuoco assieme al fantasma di Tom Joad, Springsteen ci racconta drammi reali di vita vissuta: migranti messicani, spesso costretti a farsi corrieri della droga con il miraggio di raggiungere la frontiera americana; rapinatori che si lasciano alle spalle scie di sangue; struggenti e tragiche storie d’amore lungo il confine dei due paesi e vessazioni che schiacciano i sogni degli immigrati in cerca di una nuova speranza di vita.

Un disco di rara sensibilità, diverso da altre produzioni più roboanti, che mostra quanto sia variegato il talento di questo artista cui, a modo nostro, vogliamo rendere un piccolo omaggio con una nostra versione di Youngstown, quarta traccia di questo splendido album.